Ci sono libri che segnano, altri che ispirano, altri ancora che mettono in discussione le fondamenta di ciò che sei. Per me “L’etica hacker” (2001) di Pekka Himanen ha rappresentato qualcosa che va oltre: un compagno silenzioso che ha orientato, negli anni, scelte, approcci, e un certo modo di guardare al lavoro, alla tecnologia, alla collaborazione. Non è stato solo un testo: è stato un cambio di mindset.
Quando lo lessi la prima volta, ormai più di vent’anni fa, non era solo la storia di una controcultura nata nei laboratori del MIT o nelle stanze dei pionieri dell’open source. Era la dimostrazione concreta che si poteva lavorare per passione, condividere senza calcoli, apprendere per curiosità, innovare senza chiedere il permesso.
E soprattutto, era possibile costruire un mondo digitale più aperto, umano e meritocratico.
Negli anni, questo spirito è diventato parte del mio modo di pensare e di agire. L’ho portato nei progetti, nelle aziende, nelle lezioni in aula. L’ho trasmesso ai miei team, ai collaboratori, agli studenti. E ancora oggi è un riferimento che ritorna, soprattutto in un momento in cui l’intelligenza artificiale sta ridefinendo profondamente l’equilibrio tra uomo e macchina, tra creatività e automazione, tra responsabilità e delega.
Qualche giorno fa, parlando di competenze nell’era dell’AI, durante l’evento di iKairos • Mentoring ed economia sociale, ho affermato che il manifesto dell’etica hacker, nella sua visione originaria, può e deve essere rivisto alla luce delle sfide odierne. Perché i principi che lo sostenevano non sono invecchiati. Anzi. Hanno solo bisogno di un nuovo contesto in cui esprimersi. E forse dovrebbe diventare manifesto alla base di alcuni insegnamenti.
L’etica hacker nasce negli anni ’60 e ’70 come espressione di una nuova cultura emergente attorno al mondo dei computer. Nei laboratori del MIT e tra le community dei primi sviluppatori si forma un modo radicalmente diverso di concepire il lavoro, il sapere, la collaborazione. Il termine “hacker”, prima ancora di essere associato a intrusioni informatiche, definisce una figura che smonta, esplora, migliora, condivide.
L’hacker, quello vero, è un artigiano del codice mosso da passione, non da tornaconto. Uno spirito libero che rifiuta l’autoritarismo, le regole imposte, le gerarchie chiuse.
Nel 2001, Pekka Himanen raccoglie quell’eredità e la organizza in un sistema valoriale. Il suo libro è una vera e propria dichiarazione di indipendenza culturale rispetto all’etica protestante del lavoro, fatta di sacrificio, dovere, e produttività.
L’etica hacker, al contrario, si fonda su passione, creatività, libertà, condivisione. Il lavoro è vissuto come gioco esplorativo. L’accesso alla conoscenza è un diritto. Il merito è superiore al titolo. La tecnologia non è solo strumento: è terreno di espressione personale e collettiva.
Questa visione ha contaminato generazioni di innovatori. Ha ispirato il movimento open source, l’idea stessa di community digitale, il pensiero meritocratico nelle organizzazioni fluide. Ma soprattutto ha lasciato una traccia culturale che oggi, nell’era dell’Intelligenza Artificiale, può essere riattivata come codice sorgente per leggere un futuro che si complica.
Viviamo un tempo in cui le macchine non sono più solo strumenti, ma soggetti conversazionali, agenti autonomi, creatori di contenuti. L’intelligenza artificiale si insinua nei processi creativi, nelle relazioni, nella formazione. Ridefinisce i ruoli, accelera le scelte, amplia (o restringe) l’accesso alle opportunità. I principi dell’etica hacker, ne sono convinto, possono essere riletti come una grammatica di riferimento per orientarsi.
Per questo ho ripreso il Manifesto originale, e l’ho riscritto alla luce del 2025, cercando di coglierne la continuità e la trasformazione.
Oggi, nella convergenza tra AI e creatività, la visione hacker trova una nuova casa.
Non è l’AI che minaccia l’arte, è la sua adozione inconsapevole. La sfida non è resistere all’automazione, ma integrarla in modo critico, curioso, anche ironico dove necessario. Come farebbe un hacker davanti a una macchina nuova: la smonta, la esplora, la spinge oltre i limiti. E magari la usa per disegnare qualcosa che prima non era possibile.
Oggi un artista è anche chi addestra un modello generativo sul proprio stile. Chi sperimenta prompt per generare variazioni visive, musicali, testuali. Chi ibrida. Chi contamina. L’hacker di oggi non è solo un coder: è un “creatore aumentato”, che gioca con i linguaggi della macchina per raccontare cose che prima non aveva voce per dire.
Nell’educazione, questa visione suggerisce un ribaltamento radicale. Non si tratta di proteggere la scuola dall’AI, ma di ripensare la scuola con l’AI come laboratorio permanente.L’apprendimento non è trasmissione passiva, ma esplorazione.
Un’aula hacker è un luogo dove si smontano algoritmi, si analizzano bias, si creano strumenti. Dove si insegna a usare l’AI per creare valore, non per copiarlo. Dove gli studenti non sono utenti, ma sperimentatori. E i docenti, non trasmettitori, ma facilitatori di senso.
In questo senso, formare nuove competenze non è solo una questione tecnica. È culturale. Significa coltivare la capacità di porre domande nuove. Di interpretare modelli. Di saper leggere un output generato da una macchina e chiedersi: perché ha risposto così? Quali dati ha usato? Cosa manca?
Anche nelle relazioni umane, l’etica hacker ha qualcosa da dire. In un’epoca in cui chatbot apparentemente empatici, avatar conversazionali e interfacce simulate creano nuove forme di interazione, l’hacker ethic suggerisce di mantenere lucidità. Non demonizzare la tecnologia, ma comprenderne la natura. Non rifiutare la relazione mediata, ma riconoscerne i limiti. L’empatia non è solo output simulato, è ascolto attivo, è vulnerabilità reale. E questo è ancora umano.
Nel lavoro e nelle organizzazioni, l’approccio hacker si traduce in apertura, sperimentazione, decentralizzazione. Una leadership che sa condividere processi, coinvolgere team nel co-design di strumenti intelligenti, responsabilizzare sull’uso dell’AI. Non si tratta di temere l’automazione, ma di scegliere cosa automatizzare e cosa proteggere. Di disegnare processi che valorizzino l’iniziativa, non la deresponsabilizzazione.
L’organizzazione hacker non è una rete caotica: è una comunità di scopo, dove ogni nodo ha autonomia e interconnessione: l’adozione dell’AI può diventare un driver di empowerment distribuito, se accompagnata da trasparenza, documentazione condivisa, strumenti formativi aperti.
E poi ci sono loro: gli hacker di domani.
Non saranno sviluppatori. Saranno artisti, insegnanti, ricercatori, imprenditori. Persone capaci di leggere la tecnologia non come un fine, ma come un mezzo. Persone che sapranno dove mettere le mani, ma soprattutto perché mettercele. Non solo skill, ma mindset.
Saranno quelli che useranno l’AI per risolvere problemi, ma anche per porre domande nuove. Che non cercheranno scorciatoie, ma nuove strade. Che non si accontenteranno dell’efficienza, ma andranno in cerca del senso.
Ecco perché oggi, più che mai, serve riconsiderare l’etica hacker. Non per nostalgia, ma per visione.
Perché se l’AI è il fuoco della nostra epoca, come dicevo in una riflessione di ieri, qualcuno deve insegnare come usarlo. E come non bruciarsi.
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