Ci sono esperienze che non ti accorgi di vivere fino a quando finiscono. Ti restano dentro come un riflesso, come un gesto che fai senza pensare. Ed in questo caso, il mio è stato semplice: alzare lo sguardo verso la parete del soggiorno alla mia destra, cercando il widget con le informazioni dei timer “pomodoro” che avevo messo li. Ma lì non c’era niente. E non perché fosse scomparso dal sistema. Semplicemente, non indossavo più il visore.

Uso Vision Pro da mesi, in realtà ne ho due, come ho raccontato più volte. È parte del mio quotidiano ormai. Non più solo per test o demo, ma per lavorare: scrivere, fare call, rivedere documenti, organizzare task, rispondere a mail, senza necessità di portare il mac, ma avendo la potenzialità di schermi, tutto intorno a me.

In questi ultimi giorni, con l’aggiornamento a visionOS 26, ho voluto spingere l’esperimento oltre. Ho “arredato” il mio spazio domestico, nello specifico il mio studio, il soggiorno e lo spazio in veranda, con widget persistenti: elementi informativi digitali ancorati nello spazio reale. Orologi, cruscotti, alert di borsa, piccoli moduli API che si aggiornano in tempo reale che sto implementando per sperimentazioni. E soprattutto: posizionati con cura, in funzione della loro utilità (le note della spesa e della dieta, sul frigorifero sono una bomba atomica).

Integrazione di luci, ombre, materiali. Nessuna sensazione di intrusione. Solo presenza.

Poi, dopo due ore abbondanti (per adesso è il tempo che mi sono dato), ho tolto il visore. Ed è lì che è successo qualcosa.

Quel gesto dello sguardo, istintivo, naturale, mi ha fatto capire che quei widget non erano solo overlay digitali. Non erano semplici “finestrine fluttuanti”. Erano diventati oggetti cognitivi. Parte del mio ambiente. Ancorati non solo al muro, ma alla mia memoria spaziale.

Il nostro cervello funziona così: lega informazioni allo spazio. Ricordi dov’è la chiave di casa, anche se non ci pensi. Ti muovi in un ambiente buio perché ne conosci la struttura. Allo stesso modo, inizi a sapere che quell’informazione specifica, la prossima riunione, l’andamento di un titolo, una nota lasciata a metà sta lì, in quel punto preciso dello spazio aumentato. E anche quando togli il visore, il cervello si aspetta che sia ancora lì.

Quel momento non è stato un momento di confusione. È stato un afterimage mentale.

Ci sono oggetti fisici che cerchiamo per abitudine. Il telecomando. Il telefono. Le chiavi. Ma quando non trovi un oggetto virtuale, la sensazione è diversa: non è perso, è stato rimosso. E se era ancorato al tuo spazio, è come se qualcuno lo avesse cancellato dalla realtà, ma ai la sensazione che sia rimasto un alone in quel punto.

Il paradosso è che più queste informazioni diventano persistenti, più diventano “reali”. E quando non ci sono più, non le percepisci come assenti. Le percepisci come mancanti. Come una lacuna nel mondo. Un’assenza che ti destabilizza, anche solo per un attimo.

E allora ti accorgi che quello che chiamavamo “digitale” ha iniziato a lasciare ombre nel reale. Letteralmente.

In un contesto lavorativo, questi widget aumentano efficienza, chiarezza, focus. Ti danno un ambiente organizzato, dinamico, su misura e iperpersonalizzato. Nessuna interfaccia da aprire o chiudere: tutto è lì, dove serve, quando serve. Una forma nuova di “ambient computing”, visiva e contestuale.

Ma c’è un’altra faccia della medaglia.

L’aumento continuo, se costante, se invisibile, rischia di diventare il nuovo default. E quando viene meno, il mondo torna nudo. Scarico. L’ambiente non è più neutro: è deprivato. Un po’ come accendere una stanza con luce naturale e poi spegnere di colpo. Non è solo buio: è impoverimento percettivo.

E allora ti chiedi: quanto il reale è ancora sufficiente, se non è aumentato?

Per anni abbiamo parlato di disconnessione come antidoto alla sovraesposizione da schermo. Di detox digitale, di staccare. Ma ora il problema si sposta. Il vero tema non sarà più “staccarsi dallo smartphone”, ma dal layer.

Disconnettersi significherà rinunciare a qualcosa che è dentro il nostro spazio. Che è diventato parte del nostro orientamento, della nostra organizzazione. Del nostro pensiero. E farlo non sarà solo difficile. Sarà controintuitivo.

Come spegnere la luce artificiale e scegliere di restare al buio. Sapendo che puoi riaccenderla in ogni momento.

Ecco perché il gesto che ho fatto, alzare lo sguardo verso un widget che non c’era più, mi è rimasto addosso. Perché quel vuoto non era virtuale. Era reale. Era mio.

Stiamo vivendo un momento in cui l’informazione non è più una cosa che andiamo a cercare. È qualcosa che ci sta accanto. Che si materializza con noi, e per noi. E che in molti casi ci cerca e ci raggiunge. Ma quando ci abitueremo a un mondo così aumentato, quanto sarà difficile non aumentarlo?

E se il vero problema non sarà più “avere accesso” alle informazioni, visto che saremo immersi e interagiremo con le informazioni anche senza volerlo, forse il punto vero di riflessione sarà capire come saperle lasciare andare?

Il prossimo confine non sarà la realtà virtuale, ma la realtà vuota. E dovremo imparare ad abitarla di nuovo. Anche solo per ricordarci com’era, prima di essere aumentata.

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