Effetto Zuckerberg.
E’ così che definisco già da un po’ di tempo il trend che si sta sviluppando e che si manifesta sempre più spesso. I più affetti sono i developer (ma non solo) e tutti quelli che, presi dall’embolo della 1 billion company, si lanciano in affermazioni tipo “ho una idea galattica, l’anti facebook, cerco chi ci mette i soldi e poi la sviluppo” o peggio ancora “mi è venuta una idea adesso ci faccio un’altra startup“. Fin qui, onestamente, non vedo nessun problema e trovo corretto che ognuno abbia le proprie iniziative, i propri sogni e progetti imprenditoriali in cui credere. Più che mai in un periodo storico in cui il digitale ha in qualche modo democratizzato la possibilità di fare nuovo business grazie a nuovi modelli, nuove professioni e tanto spazio ancora disponibile.
Ma il tema è un altro.
Il tema è che questi mantra (che danno appunto vita a quello che io chiamo l’effetto Zuckerberg), che ormai si ripetono costantemente come a giustificare qualsiasi scelta professionale improvvisa o cambiamento di direzione (spesso anche e soprattutto a discapito di altri), stanno avendo ripercussioni incredibili, peggio di quello che si possa pensare: frammentazione di focalizzazione, assenza di vero commitment, discontinuità, incapacità di portare (o almeno provare) a termine quanto iniziato, sopravvalutazioe delle proprie competenze e potenzialità, superficialità, inaffidabilità o nel peggiore dei casi anche mancanza di coraggio di affrontare la chiusura di qualcosa che non ha funzionato o che andrebbe chiuso per tempo, prima di danneggiare anche altri.
Tutti sono alla continua ricerca di una next big thing, ma pochi sono in grado di capire cosa significa scommettere su se stessi e su un progetto iniziato o da inziare. Il problema è proprio qui ed è nel messaggio che sta passando a livello mediatico: sembra che fare impresa sia rischiare solo una parte del proprio tempo, trovare due soldi per partire (o anche “trovare il pollo che ci crede sulla carta“) e poi buttare tutto al secchio se non va, tanto i soldi li hanno messi altri, “io ci ho messo qualche ora di sviluppo, che sarà mai“.
Troppi pensano che fare Facebook sia facile o che sia frutto di qualche piccola scommessa, finchè non trovo quello che va. Non è così. Per fare un facebook ci vuole talento, impegno, costanza, fortuna e determinazione oltre ogni limite e credere nel proprio progetto rischiando, in prima persona, tempo, soldi, faccia. Si sta perdendo la capacità di focalizzare un obiettivo e sempre più spesso vedo una velata paura di arrivare al successo, rimandando avanti le scelte o dando la colpa al contesto o tanti altri fattori.
Quanti realmente fanno bootstrapping, quanti sono in grado di validare una idea creando la prima vendita e poi capire se il prodotto realmente può scalare? Quanti realmente sarebbero disposti a non abbandonare una nave con gli altri a bordo, e cercare di recuperare i danni o almeno decidere di affondarla – con razionalità – per ripartire? Quanti provano a cambiare un percorso e fare un vero pivoting, prima di mollare?
Pochi per quello che che vedo. E pochissimi sono pronti a scommettere realmente. Gli altri giocano a sentirsi (non fare) gli imprenditori con le chiappe degli altri, senza preoccuparsi di finanza, marketing, business, costi, sostenibilità del progetto ma solo a cercare di far vedere che l’idea che hanno è figa, fino ad abbandonarla.
Tanto, al primo mal di stomaco, c’è un altra fantomatica idea da far partire.
Giusto per approfondimento, se vi interessasse fare bootstrapping vi giro questo link a questo post che ho trovato molto interessante e che ha ispirato questa riflessione, partita da Facebook, sulla quale stavo riflettendo da tempo: To bootstrap or not? 5 questions to ask yourself