L’euforia del self made man e dell’imprenditore seriale avanza velocemente: forza di volontà, spirito di sacrificio, idee, tante idee, fallimento rapido, ripartenza. E via. Ed il successo te lo costruisci da solo. In teoria.
In pratica poi, non è proprio così.
Si dice:
Fail Fast, Fail Often, Fail Forward.
Bello. Finché si interpreta correttamente.
Quello del fallimento sembra sia uno di quei principi fondamentali nella Silicon Valley. Uno di quelli che si ripete all’infinito, come un mantra. Ed è importante perché, nella sua definizione di base, questa frase valorizza il concetto e l’approccio dell’iterazione rapida (tanto cara alle metodologie agili). In un’epoca in cui la tecnologia cresce esponenzialmente, questo approccio veloce e snello, può diventare il fattore critico di successo di un progetto.
Tanto più sei bravo ad iterare, validare e rivedere il tuo percorso/prodotto, tanto più sei in grado di capire se stai “fallendo” o meno, e scegliere di prendere altre direzioni o ritornare su alcuni passi, e continuare a lavorare sul tuo progetto.
Piccoli passi, anche parziali, ma molto veloci e continui. Cambi di direzione ragionati e valutati. Stesso progetto.
Fin qui tutto chiaro, no? Io sono assolutamente d’accordo su un modello di questo tipo, e sono un fautore della validazione, del modello della Customer Development e della sperimentazione continua.
Il tema però è che il concetto del fallimento veloce è ormai stato interpretato in modo completamente errato.
Il fallimento sta diventando una sorta di moda distorta, secondo cui chi fallisce (o sta fallendo) tende a ritenersi un eroe dell’innovazione. Della serie “Tanto più fallisco, tanto più sono un fico e ho provato tanto. Ora inizio un altro progettino”.
La realtà è che questa cattiva interpretazione sta generando imprenditori (se così son definibili) superficiali: troppi pensano che fallire voglia dire abbondare un progetto che non ha performato al primo colpo, per saltare su un altro progetto, senza preoccuparsi degli impatti della loro scelta e senza la responsabilità caratterizzante dell’imprenditore verso persone, investitori e stakeholder vari. E così via si riparte per una “seconda startup”, poi una terza, una quarta e via dicendo.
Del fallimento vero ne rimangono solo parole: pochi analizzano realmente gli errori, reiterano e cercano di fare realmente un pivoting o hanno un piano di recupero dove necessario, così come pochi cercano di capire se realmente si è arrivati ad un punto di non ritorno o se semplicemente si è scelta una soluzione non ottimale.
Nel 2010 Mark Suster, un imprenditore, disse che non erano i progetti a dover morire rapidamente, ma il mantra stesso del fallimento perché era “sbagliato, irresponsabile, immorale e senza cuore“.
Gli imprenditori che affermano che avviano nuovi progetti per sperimentare nuove idee, senza nessuna preoccupazione di investire ulteriore tempo, abbandonando il progetto precedente, perdendo di focalizzazione, rischiando di non riuscire a gestire tutto al meglio, sono a mio avviso incoscienti e superficiali.
Sarebbe interessante in effetti chiedere a chi ha investito soldi in un progetto, cosa ne pensa e che idea ha del fallimento rapido, dei suoi soldi buttati al vento da uno che ha deciso di sperimentare un altro progetto e che adesso si diverte a fare codice per un altro prodotto, invece di cercare una soluzione o una strada per recuperare quello che non funziona.
Il fallimento, quello vero, non può esser preso alla leggera..