Sabato scorso, al festival di Medioera a Viterbo, ho avuto l’opportunità di rispondere a 11 delle 50 domande affrontate nel mio libro “L’AI non è quello che pensi”. Ho scelto i punti più curiosi e quelli su cui spesso lo scetticismo è più forte, approfondendo temi come il futuro delle competenze, il rapporto tra AI e capacità critica, e il rischio di una società sempre più dipendente dalla tecnologia.
Uno dei temi centrali del mio intervento è stato l’obsolescenza delle competenze. L’AI accelera inevitabilmente la velocità con cui ciò che sappiamo diventa obsoleto. Non basta più apprendere una volta sola; oggi la vera sfida è imparare come imparare.
Elga Nowotny, in Le Macchine di Dio, chiama questo rischio auto-appiattimento: non solo rischiamo di delegare troppo, ma anche di smettere di sviluppare un pensiero critico. Se consumiamo passivamente informazioni generate dall’AI senza metterle in discussione, diventiamo spettatori passivi. Qui, l’obsolescenza delle competenze si intreccia con una questione più ampia: la nostra autonomia intellettuale.
L’AI, infatti, non “pensa”, ma “calcola”. Non ha valori, emozioni o coscienza. Eppure, spesso tendiamo a trattarla come una fonte di verità assoluta. Questo può portarci a una passività intellettuale pericolosa, in cui accettiamo tutto ciò che viene proposto senza metterlo in discussione.
Eppure, l’AI può (e dovrebbe) essere uno strumento straordinario per amplificare le nostre capacità. Come ho detto durante lo speech, l’AI è uno specchio: riflette il meglio o amplifica il peggio di noi. Non è una minaccia né una salvezza, ma un’opportunità per sviluppare una nuova alfabetizzazione digitale e una capacità critica che ci permettano di costruire con questa tecnologia qualcosa di significativo.
Su questo punto, una delle domande su cui si è posato più l’interesse della platea è stata: “Con l’AI non ci servirà più imparare?”
A prima vista, potrebbe sembrare che, grazie all’intelligenza artificiale, non avremo più bisogno di accumulare conoscenze o competenze, dato che possiamo delegare il lavoro pesante alle macchine. Ma è davvero così?
La risposta è complessa e ci porta dritti al cuore di una trasformazione epocale: l’obsolescenza delle competenze. Ciò che impariamo oggi rischia di diventare irrilevante in tempi brevissimi, in un contesto in cui il ritmo di sviluppo del nuovo è così veloce da non permettere di consolidare quanto appreso.
L’AI sta ridisegnando il mondo del lavoro e il nostro rapporto con l’apprendimento. Non si tratta di non dover più imparare, ma di imparare in modo diverso e molto più velocemente. Le competenze che oggi riteniamo essenziali potrebbero diventare superflue in pochi anni. L’unica vera competenza per il futuro sarà la capacità di imparare continuamente. L’apprendimento non sarà più un processo statico legato alla formazione scolastica, ma un viaggio dinamico che ci accompagnerà per tutta la vita.
L’AI non sostituirà mai del tutto la nostra capacità di giudizio, ma potrebbe renderci dipendenti se non impariamo a governarla. Per questo, oltre ad aggiornare le nostre competenze tecniche, dobbiamo sviluppare capacità trasversali come l’analisi critica, la creatività e l’adattabilità. L’AI non elimina la necessità di imparare, ma trasforma il come e il cosaimpariamo.
Non basta più sapere. Dobbiamo saper cercare, collegare e creare. Non possiamo limitarci a memorizzare nozioni; dobbiamo comprendere i processi e i modelli che ci permettono di innovare. L’AI, come tutte le tecnologie, non dovrebbero renderci meno responsabili; al contrario, le innovazioni ci chiedono di assumere un ruolo attivo nell’interpretazione e nell’utilizzo, ed in particolare, con l’AI, nell’utilizzo dei dati. Paolo Benanti, parlando di algoretica, ci invita a non fermarci all’automatismo ma a sviluppare una consapevolezza critica sull’impatto degli algoritmi.
Imparare, quindi, non è solo una necessità, ma un atto di resistenza. Resistenza contro l’appiattimento (già amplificato da social e algoritmi), contro la tentazione di delegare tutto alla tecnologia.
L’idea che l’AI possa liberarci dal bisogno di imparare è una semplificazione pericolosa. Piuttosto, ci spinge a imparare di più, con nuove metodologie e a velocità mai viste prima. L’intelligenza artificiale deve essere un catalizzatore per un apprendimento più profondo, che possa abilitarci sempre più curiosità e spirito critico.
Forse la domanda giusta è: siamo pronti a reinventare il nostro modo di imparare?
+
Nel libro “L’AI non è quello che pensi” trovi altre 49 domande e risposte semplici.